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25 Aprile, la Storia e le storie da non dimenticare

da Cosimo Saracino
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(di Fernando Orsini) – Cosa pensi possa interessare della Liberazione e della Resistenza oggi, ad oltre settanta anni da quel 25 aprile 1945? Una volta morti tutti o quasi tutti coloro che hanno vissuto intensamente quei giorni, chi vuoi che possa incuriosire quel che avvenne in Italia nei venti mesi fra il Settembre 1943 e la fine di Aprile 1945? Pensi veramente che ai ragazzi della mia età possano interessare immagini di sangue, di corpi dilaniati ed esposti su una piazza, uomini torturati, donne seviziate e stuprate, impiccagioni o fucilazioni, civili vittime di rappresaglie e bombardamenti? Questo è quel che sostanzialmente mi ha detto mia figlia, facendomi dubitare se fosse veramente il caso di riflettere (ancora) sul 25 Aprile. Pur a disagio nei panni del padre che “spiega” quel periodo a una figlia quasi diciottenne, ho voluto superare ogni titubanza, aiutato anche dal fatto che è stata lei stessa a togliermi ogni dubbio. Certo – ha aggiunto – a scuola recentemente abbiamo fatto un laboratorio su quel periodo storico e devo dire che abbiamo appreso cose che ci hanno fatto riflettere, e non poco. 

Ecco, rievocare dopo oltre settant’anni la Liberazione e la Resistenza e rivolgersi a chi non ha vissuto quei fatti e quei tempi, potrebbe essere un esercizio vano anche in considerazione della scomparsa di chi di quei fatti è stato protagonista, una generazione quasi scomparsa del tutto. Ma potrebbe riservare anche non poche sorprese, solo che si “spieghi”, senza alcuna boria, senza retorica, per non incappare in un rischio, perennemente in agguato, quello dell’enfasi che oscura la memoria.

E come può raccontare chi quegli anni non li ha vissuti, evidenziando quali furono le scelte di fronte alle quali si trovarono gli uomini e le donne di allora, i timori, i tormenti, le angosce, i dubbi che gravavano sulle coscienze, ma anche i progetti, gli ideali, le aspettative, le speranze che mossero i “ribelli” al nazifascismo?

Anzitutto, depurando quegli anni da alcuni luoghi comuni. La Resistenza a lungo è stata considerata solo una «cosa di sinistra», fazzoletto rosso al collo, “Bella ciao” e “Fischia il vento” cantate a squarciagola. Negli ultimi anni, poi, i partigiani – almeno in alcuni libri – sono stati presentati come torturatori sanguinari, che si accanirono su vittime innocenti, sui «ragazzi di Salò». Entrambi questi stereotipi sono fuorvianti e pressoché falsi. 

La Resistenza non è il patrimonio di una “fazione” ma un vero e proprio “patrimonio nazionale”. E’ una Storia fatta di microstorie, di case che hanno accolto nella notte i partigiani per farli sfuggire agli oppressori nazifascisti, di feriti curati in posti di fortuna, di ricercati nascosti nei posti più impensati, di donne coraggiose. Come Cleonice Tomassetti, catturata mentre tenta di raggiungere i partigiani e rinchiusa nel carcere di Torino, nonostante sottoposta a indicibili sevizie, fa coraggio agli altri giovani catturati e condannati a morte come lei «…su, coraggio, ragazzi, è giunto il plotone di esecuzione. Niente paura. Ricordatevi che è meglio morire da italiani che vivere da spie, da servitori dei tedeschi». 

Storie di madri che fanno scudo con il proprio corpo ai figli, come Genny Marsili, di sacerdoti come don Giovanni Barbareschi, di suore come Enrichetta Alfieri, di operai come Luciano Migliorini, di imprenditori come Paolo Farinetti, di contadini come Ismaello (Nello) Ismaelli, di docenti universitari come Gianfranco Mattei, le cui ultime parole le lasciò scritte con una matita sul tergo di un assegno circolare, di centinaia di migliaia d’internati militari in Germania che restarono nei lager a patire la fame e le atrocità pur di non andare a Salò a combattere altri italiani. Fu fatta certo dai partigiani comunisti come Eusebio Giambone (Franco), dai partigiani socialisti come Quinto Bevilacqua, ma anche da quelli cattolici come Aldo Gastaldi (Bisagno), monarchici come Augusto De Luca, ebrei come Eugenio Curiel, autonomi come Beppe Fenoglio, apolitici. E fu fatta dalle donne come Irma Bandiera, dai fucilati di Cefalonia, dai bersaglieri che morirono combattendo al fianco degli Alleati, dai militari come il colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo (intensa la sua biografia di Mario Avagliano), dai carabinieri come quelli trucidati alle Fosse Ardeatine, come Fortunato Caccamo (Tito) e come Filippo Bonavitacola che, messo a morte, gli viene ordinato di staccarsi gli alamari e di calpestarli; lui rifiuta e quando si avvicina l’ufficiale tedesco per bendarlo, prima lo stende con un pugno, poi si sbottona la giubba e comanda lui stesso il fuoco. 

In tutte queste microstorie prevale un comune sentire patriottico. Questi uomini e queste donne, di qualunque partito e di qualunque fede, dicevano prima di morire tutti la stessa frase, ”muoio per un’idea”, espressione che ritroviamo in quasi tutte le lettere dei partigiani condannati a morte. Come le ultime parole di Guglielmo Jervis, vergate con la punta di uno spillo sulla copertina di una Bibbia ritrovata vicino al luogo dove fu fucilato, «…non piangetemi. Non chiamatemi povero. Muoio per aver servito un’idea».    

Certo, la Resistenza ha avuto le sue pagine nere, le sue macchie, come l’eccidio di Porzus, in Friuli, dove partigiani comunisti ‘titini’ assassinarono 17 partigiani cattolici della “Brigata Osoppo”, fra cui una donna e Guidalberto (Guido) Pasolini, fratello di Pier Paolo, pagine che vanno tutte raccontate, senza alcuna reticenza o manomissione. Ma quel periodo è soprattutto scandito dalle voci dal lager, dalle parole delle lettere dei condannati a morte, molti dei quali chiedono la riconciliazione nazionale e si dicono certi che dal loro sacrificio nascerà un’Italia migliore. Come quella di Pietro Benedetti, un artigiano fucilato il 29 aprile 1944, che così si rivolge ai figli: “…Amatevi l’un l’altro, miei cari, amate vostra madre e fate in modo che il vostro amore compensi la mia mancanza. Amate lo studio e il lavoro. Una vita onesta è il migliore ornamento di chi vive. Dell’amore per l’umanità fate una religione e siate sempre solleciti verso il bisogno e le sofferenze dei vostri simili. Amate la libertà e ricordate che questo bene deve essere pagato con continui sacrifici e qualche volta con la vita. Una vita in schiavitù è meglio non viverla. Amate la madrepatria, ma ricordate che la patria vera è il mondo e, ovunque vi sono vostri simili, quelli sono i vostri fratelli”. 

O come quella di Paola Garelli (Mirka), pettinatrice di Mondovì, fucilata il 1° novembre 1944, che scrive alla sua piccola bimba: “Mimma cara, la tua mamma se ne va pensandoti e amandoti, mia creatura adorata, sii buona, studia e ubbidisci sempre gli zii che t’allevano, amali come fossi io. Io sono tranquilla. Tu devi dire a tutti i nostri cari parenti, nonna e gli altri, che mi perdonino il dolore che do loro. Non devi piangere né vergognarti per me. Quando sarai grande capirai meglio. Ti chiedo una cosa sola: studia, io ti proteggerò dal cielo. Abbraccio con il pensiero te e tutti, ricordandovi la tua infelice mamma”.

Pur con la comprensibile commozione, ai ragazzi, agli studenti di oggi, che ormai “sono grandi e capiscono”, questo va detto: leggetele quelle lettere, sono state scritte da giovani che avevano qualche anno in più di voi ed ai quali, purtroppo, non gli fu data la possibilità di veder diventare adulti i propri bambini o loro stessi. «…Se non ho saputo vivere, mamma, so morire…vai a testa e dì pure che il tuo bambino non ha tremato», questo scriveva nella sua ultima lettera alla madre Domenico Cane, trentenne, artigiano decoratore di Torino. 

A settantuno anni dalla Liberazione, mentre i testimoni se ne stanno andando, è giusto salvarne la memoria e raccontare ai giovani cosa è stata davvero la Resistenza, e di quale forza morale sono stati capaci i nostri nonni ed i nostri padri.  

Ancora oggi lo vediamo nelle immagini di popolo, uomini e donne, giovani e anziani, che nella giornata del 25 aprile 1945 scesero nelle strade e nelle piazze a festeggiare i partigiani e gli Alleati che sfilavano, a manifestare festanti e felici la volontà di riprendere il futuro nelle proprie mani. Le immagini che ci hanno tramandato quel momento colpiscono ancora, difficile rimanervi impassibili. «Tra l’esaltazione di una falsa e ingannevole Resistenza e un discorso serio sulla Resistenza vera – ha scritto Norberto Bobbio – abbiamo scelto da tempo». 

Aver espunto la Resistenza dal dibattito pubblico per diverso tempo – anche per responsabilità di quelle forze politiche che ne avevano una visione “apologetica” e “agiografica”, quella che lo storico Renzo De Felice definì “vulgata filo-resistenziale” – ha comportato una sorta di miseria morale. Senza scomodare Claudio Pavone, partigiano ed antifascista, uno degli storici che su quel periodo ha scritto pagine ormai incancellabili, dopo l’8 Settembre – i giorni che Piero Calamandrei definì «dei dubbi, delle viltà, delle perplessità» – ciascuno fece i conti con le proprie risorse, tra coraggio e opportunismo. Prima furono diecimila, poi centomila, alla fine oltre centocinquantamila, certo, pochissimi in confronto ai milioni che avevano affollato le piazze del fascismo, che avevano ascoltato le parole del duce. Ma mai nella storia d’Italia così tante persone avevano scelto di mettere in gioco la propria vita per la collettività. E in un tempo come il nostro privo di una ‘pedagogia’ politica questo, insieme alla Costituzione repubblicana, è il lascito più prezioso di quella temperie. 

Chiarire il significato storico e morale della lotta di Liberazione significa non chiedere ad essa più di quel che ha dato. La Resistenza è stata un atto di libera scelta, una guerra liberatrice. Tutto quel che si fa e si continuerà a fare per conservare ed allargare la nostra libertà – lo ha sempre gridato Sandro Pertini – è fatto in nome e per virtù della Resistenza. Proprio questo spirito di libertà è l’eredita più grande della Resistenza. E sino a che vi saranno uomini liberi – scriveva sempre Bobbio – la Resistenza continuerà ad essere un monito ed una speranza. 

E’ questa memoria storica, fondamentale collante alla base dell’essere italiani che le giovani generazioni devono salvaguardare, per non ripetere certe tragedie. Ecco perché anche dopo oltre settanta anni non c’è spazio per “zone grigie” e “finte neutralità”, che coinciderebbero solo con una pericolosa indifferenza qualunquista.

Recuperare quello «spirito di libertà» diventa una sorta di imperativo morale per tutti. Oggi come non mai avremmo tanto bisogno di attingere a quelle energie, a quella fiducia, a quel bisogno di libertà, di giustizia e di pace.

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