È il 2020, la pandemia impone di suggellarsi nelle case, Riccardo è poco più di un bambino e poco meno di un ragazzo e, per ingannare quel tempo che disorienta, si incuriosisce di un vecchio pianoforte in disuso a casa dei nonni. Il picchiettare sui tasti bianconeri, dapprima incerto, poi disciplinato e armonioso, cresce prodigiosamente, per dirla con Camus «come un fiore nato dal silenzio» (“L’Étranger”).
Oggi Riccardo, Riccardo Rini, ha 13 anni, sale su un palchetto allestito nell’auditorium del Castello della sua città, ai piedi le sneakers che ci si aspetterebbe da un suo coetaneo nelle ore dello struscio, attorno una platea di affetti familiari, si accomoda sulla seggiola e si racconta al piano nel primo concerto pubblico, organizzato per declinare il primo album a sua firma, la raccolta di titoli anglofoni “It’s just a dream”. L’inglese serve appena a velare il pudore, che è la prima cifra esistenziale del neonato compositore e pianista: è soltanto un sogno, sembra sussurrare, per anzitutto convincersi e poi convincere gli altri di un fenomeno transeunte a cui non dare troppo credito.
Invece bisogna credergli, confidare in lui anche se è spiazzantecome tutti gli ircocervi: ha 13 anni, gioca e scherza come i tredicenni, inzuppa le polpette nella maionese come un tredicenne ma quando suona ammalia e cancella i dati e le regole dell’anagrafe; è pudico ma sa esporsi con misurata eleganza; è ancora intonso, con tutto il portato esteriore ed intimo di un innocente, ma riesce a irrompere e si sa che l’irruzione è sempre l’atto di un malizioso.
Se la poesia e l’emopoiesi condividono, dal greco, la medesima radice – «poiesis» – la scaletta di 10 brani che inanella senza respiro è a metà tra il versificare e il distillare, un prodotto purissimo, la narrazione autentica, appunto sanguigna, della sua realtà: di come la vede, la legge, la interpreta, imprimendole una direzione. Segna sullo spartito un punto di vista incrollabile, coerente al fondo, com’è proprio dei talenti naturali, di quelli che riescono a trasformare il fuoco in legno. Quando resta ritto dirimpetto al pianoforte e le falangi articolano rapidamente e poi adagio e quindi di nuovo impennano sulla tastiera, quando prolunga sé stesso in melodie che accarezzano l’anima, Riccardo Rini sta compiendo un’opera grande che va ben oltre il portento di un imberbe autodidatta che, dando forma ai contenuti interiori, si è dato forma, ha dato forma alla propria meravigliosa umanità.
Il vero quantum è che lui parla a nome degli afoni, scrive per conto degli analfabeti, in definitiva suona per restituire titolarità a tutti coloro che covano uno scrigno di valori, sentimenti, emozioni ma non hanno in dote un mezzo espressivo efficace e perciò non riescono ad esprimerlo.
È giovanissimo, sì, certo. Possiede un dono innato, difficile contestarlo. Ma la sua vicenda non è, non può limitarsi allo stereotipo dell’enfant prodige: è un privilegio poter assistere alla sua narrazione, ascoltare il suo punto di vista, regolarsi rispetto ad esso. E, al di là delle classifiche e degli spotify, sarà un privilegio vederlo crescere, scoprire che tipo di uomo diventerà.