(di Carmelo Molfetta) – Lo hanno chiamato ”contratto”! Ma cos’è questo “contratto” per il governo del cambiamento.
Può un contratto stipulato tra privati cittadini impegnare le massime istituzioni rappresentative dello Stato italiano?
I rappresentanti legali di due associazioni private, tali sono i partiti politici, stipulano un contratto innanzi ad un notaio il quale nulla altro può fare che autenticarne le firme di sottoscrizione.
L’oggetto di questo contratto è costituito da un elenco di cose da fare che dovrebbe impegnare il Governo, i singoli parlamentari e nientemeno lo stesso Parlamento della Repubblica Italiana nella sua funzione massima dell’esercizio del potere legislativo.
Non posso dire se tutto ciò costituisca la rappresentazione fumettistica del principio del “primato della politica”, ma posso sicuramente affermare che si tratta di una operazione di propaganda essendo molti gli elementi che tendono in tale direzione.
Il contratto così concepito dai firmatari, infatti:
- Esautora il Presidente del Consiglio dal potere di direzione politica. Egli non solo non ha partecipato allo studio, redazione e stesura del contratto, ma ne comprime, se non proprio ne annulla, il potere di indirizzo politico della attività dei ministri, poiché è tenuto ad eseguire i patti stipulati tra due privati cittadini;
- La stessa responsabilità politica collegiale dei Ministri nell’ambito della azione di promovimento della azione amministrativa dei rispettivi dicasteri, è ingabbiata nel contratto stipulato tra privati;
- La responsabilità collegiale degli atti del Consiglio dei Ministri risulta derivata da una iniziativa concepita al di fuori della competenza istituzionale propria del Governo.
Allo stato dunque il Governo ha due possibilità di scelta:
- Ritiene il contratto stipulato tra due privati cittadini fonte legittima della propria azione politico-amministrativa, ed allora in questo caso viene esautorato dei poteri riconosciuti dalla Costituzione assurgendo al ruolo di mero esecutore.
- In alternativa rivendica la propria legittima autonomia, rifiuta questa camicia di forza del contratto, provocando così un chiaro dissenso politico nei confronti dei sottoscrittori del contratto giallo – verde i quali, però, in modo previgente, si sono insediati come cerberi a guardia della Bastiglia finalmente conquistata.
In realtà il Governo è titolare di una piena libertà di manovra (92 e segg. Cost.) fondata sul rapporto di fiducia (con il) del Parlamento. Un contratto sottoscritto da soggetti terzi non può in alcun modo limitarne, o peggio annullarne la piena e autonoma azione politica. Il “contratto”, di chiara derivazione privatistica, costituito da clausole generiche quanto vaghe, (ancora oggi a manovra finanziaria approvata non si ha piena conoscenza dei contenuti), è stato formalmente “recepito” nel programma di governo e trasmigrato nel contenuto delle mozioni di fiducia presso entrambe le camere.
L’azione politica è chiara e palesemente scoperta: si è tentato in questo modo di attribuire valore pubblicistico ad una scrittura privata.
Ma proprio gli escamotage usati sono la controprova della volontà di tenere sotto tutela l’azione politica del Governo limitandone, se non proprio annullandone, la sua autonomia di iniziativa, quella dei singoli parlamentari (chi dissente viene espulso) e in ultima analisi del Parlamento.
Sarà compito delle opposizioni presenti in Parlamento, fatte salve le rispettive legittime posizioni sui singoli atti, smascherare tale operazione mistificatrice.
Intanto si prende atto che, pur in clima di anestetizzazione generale e galoppante che si vive in questo periodo, ancora esistono sussulti di vivace e sana disobbedienza civile.
L’azione di protesta di molti sindaci anche di importanti città e l’annunciato ricorso alla Consulta da parte del Presidente della Toscana Rossi, contro il “decreto sicurezza” ben possono essere inscritte nella migliore tradizione libertaria della politica italiana che fonda le sue radici sin dentro la Costituente.
Del “diritto di resistenza” nella Costituente ne parlarono tanti eminenti uomini politici di ogni parte. Durante la seduta pomeridiana del 4 dicembre 1947, l’Assemblea Costituente discuteva del secondo comma dell’art. 50 il cui testo espressamente recava : “Quando i poteri pubblici violino le libertà fondamentali ed i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza all’oppressione è diritto e dovere dei cittadini”.
L’articolo così approvato in commissione non superò la prova del voto dell’Assemblea Generale e l’attuale art. 54, in cui si trasfuse il precedente art. 50, non ne porta più traccia. Il dibattito che seguì ne spiega le ragioni. Durante una delle sedute della commissione, il democristiano onorevole Caristia dichiarò: «Ogni democrazia che sorgerà, dopo un lungo servaggio, appagandosi solo del piacere di nascere, senza alcuna garanzia per difendersi contro le mene degli avversari, diverrà immancabilmente loro preda e ludibrio».
Oggi dopo un lungo periodo di torpore, qualcosa si muove: speriamo soltanto che non si risulti altra operazione di propaganda.
Mesagne 5 gennaio ’19
Carmelo Molfetta