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Anna Milanese, “assenza più acuta presenza”

da Cosimo Saracino
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(di Giuseppe Florio) – Quando, sedicenne presuntuoso, mi cimentai con la traduzione di uno dei carmi più noti di Properzio, la prima difficoltà fu quella di coglierne il senso profondo, la dura madre: “Aliquid sunt manes (resta qualcosa degli estinti), letum non omnia finit (la morte non annienta tutto), luridaque evictos effugit umbra rogos (un’ombra livida sfugge, vittoriosa, ai roghi)”. Ricordo nitidamente che, per superare l’impasse, mi venne in soccorso la storia di Anna Milanese. Anna aveva gli occhi belli, come può averli una fanciulla in fiore, e guance ridenti, e pensieri guidati da una fede inconsueta e precoce, più spesso rivolti ai coetanei che, nelle periferie del mondo, pativano la fame e la povertà. Io non avevo avuto conoscenza diretta di questa ragazza morta a 14 anni, ma mi era familiare, in una misura che fino ad allora non ero riuscito a qualificare.

Quella familiarità era l’effetto – ma vorrei dire: l’aura – dell’infaticabile opera di papà Salvatore, Totò per i mesagnesi, il quale aveva attribuito un senso alla tragedia della morte prematura di una figlia edificando un monumento alla sua memoria. Un monumento che era tutt’altro che un mausoleo, che era l’esatto contrario di un sepolcro: perché vivo, vivido e vivifico, cioè esso stesso portatore di vita. Sulla memoria, sul suo culto, oggi si consumano molti equivoci e qualche farsa. Praticare la memoria come ispirazione e dunque come prammatica o norma morale è assai difficile e forse anche scomodo. Totò Milanese prima (per trenta lunghi anni, fino a questo, segnato dalla sua scomparsa) e poi il figlio Giuseppe hanno bene illustrato i versi di Properzio: qualcosa resta dopo la morte ed è una vena pulsante e prodigiosa, tanto da sfuggire all’oblio e da restare tra i cosiddetti vivi, perseverando nel tempo, significando nel tempo.

Anna mi fu familiare mentre traducevo dal latino perché era familiare alla mia comunità, perché era diventata la figlia di tanti padri e madri, la sorella di tanti fratelli e sorelle. Addirittura ben oltre il diffuso sentimento di religiosità cristiana, la dolcissima fisionomia – umana e morale – di quella ragazza è diventata patrimonio di una collettività, così tramandandosi di generazione in generazione. Questo fenomeno non ordinario non è stato il solo per Mesagne, ma forse è stato il primo. È poi accaduto in diverse altre occasioni, sicuramente per Melissa Bassi, vivificata dalla forza di due genitori eccezionali; e certamente per Carmelo Molfetta, il cui sorriso da simpatica canaglia è stato consegnato ai posteri dalla prova titanica di papà Pompeo e dal poderoso amore di un gruppo sconfinato di suoi amici. Nell’anno in cui Totò Milanese è morto, la Fondazione intestata ad Anna compie trent’anni e già questo è un bilancio in attivo. Il resoconto è, invero, ben più favorevole, potendo annoverare tra i risultati conseguiti una moltitudine di progetti di aiuto concreto realizzati nel Terzo mondo, là dove volgeva lo sguardo di Anna.

Il prossimo 1 dicembre, complice un recital allestito nel Teatro Comunale di Mesagne, Giuseppe Milanese annuncerà i nuovi ambiziosi programmi della Fondazione. Giuseppe non è (soltanto) il fratello di Anna; non è (soltanto) il figlio di Totò o colui che ha dapprima affiancato il papà e poi raccolto da questi il testimone nell’impresa di mantenere viva quella bambina. Giuseppe è parte stessa dell’eredità lasciata da Anna e Totò, è ad un tempo l’esecutore testamentario ed il testamento morale che si realizza. La sua è una figura insolita nel panorama attuale perché non può ridursi a quella del manager o dell’imprenditore d’affari, piuttosto essendo un imprenditore di idee con un forte rilievo solidaristico e filantropico. Egli da anni rileva, con ponderazione ma altrettanta acutezza, la crisi valoriale che ha investito la politica, la società e, in definitiva, la civiltà. E prova a rispondere a questo processo involutivo (o degenerativo) promuovendo investimenti ispirati alla carità ed alla giustizia sociale, accendendo opportunità che chiunque potrebbe cogliere, sollecitando le amministrazioni pubbliche a raddrizzare i deviatissimi timoni, allestendo ambienti di lavoro sani, igienici, soddisfacenti, perfino (e questo è paradossale nell’epoca in cui il mestiere è sofferto) felici. Io da un lato ho sempre ritrovato in lui – si parva licet – i fattori di spinta ideale che avevo ammirato nella esemplare esistenza di Adriano Olivetti; dall’altro, vi ho scorto la scintilla lasciata da Anna ed il mantice realizzato da suo padre. Quel fuoco è vivo.

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1 commento

Davide M. lunedì, 26 Novembre 2018 - 13:28

Direi stupende parole………Complimenti all’autore del pezzo…….

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