(di Giuseppe Florio) – Le immagini del TG dell’emittente Tigrai TV si susseguono alla stregua di uno occidentale, potrebbero essere della RAI o della CNN, non si noterebbe alcuna differenza. Invece sono catapultate verso il grande etere globale dall’Etiopia e raccontano quella particolare categoria di cronaca che contribuisce a edificare la Storia.
I primi fotogrammi inquadrano le pareti linde di una costruzione addobbata con palloncini colorati, nell’inintelligibile flusso della voce fuori campo si intercettano un paio di parole italiane («Anna Milanese»), poi campeggia una targa bilingue (inglese e amarico), che aiuta la comprensione: «Happiness is having something to do, someone to love and something to hope for», un motto morale da incidere sulla pelle, e «It is a gift from the Anna Milanese Foundation – Italy», dedica che vale la spiegazione.
«The gift», il dono, è l’ultimo lascito in ordine di tempo di Anna Milanese, scomparsa improvvisamente giusto 40 anni addietro: nel suo diario, rinvenuto post mortem, la larghezza e la profondità dei pensieri di una quattordicenne che inusualmente guardava all’Africa e si affliggeva per il dolore di bambini e di popolazioni così tanto lontani, così tanto diversi.
Solo la stucchevolezza della retorica indica che dal dolore – addirittura dallo strazio del lutto – origini sempre il bene. Da questa tragedia è sorta una storia: faticosa, articolata, complessa, ma anche del genere che entra negli annali. Ed è una storia di bene, che del bene racconta cioè l’esercizio e l’esemplarità. Bianca e Totò, i genitori di Anna, raccolsero i semi lasciati dalla figlia dapprima in un libro, poi in una Fondazione che li fece germogliare in mille rivoli di attività benefiche. Il fratello di Anna, Giuseppe, li ha interrati nella maggiore cooperativa sociosanitaria del Paese, portatrice, prima che di un protocollo scientifico di assistenza, di un modello umanitario premuroso. Poi insieme ai figli – Luca, Matteo, Anna, Filippo – e ad altri affetti cari ha rinvigorito la Fondazione di famiglia, infondendovi uno slancio nuovo, al passo con i tempi, forse anche più ambizioso, se l’ambizione è la misura dello sguardo compassionevole di quella bambina.
Oggi Anna Milanese è viva. Lo è attraverso la nipote dalle iridi fulgide che abbina il medesimo nome allo stesso cognome, che ne custodisce la memoria nella responsabilità della presidenza della charity, che coltiva frutti e li dona, proprio come aveva desiderato la zia. E lo è perché vivi sono i sorrisi dei bambini e delle ragazze di Quihà, il 30 novembre scorso, nel giorno dell’inaugurazione della Casa delle donne, struttura realizzata dalla Fondazione in cui saranno ospitate vittime di violenza di uno dei Paesi più poveri del pianeta, e di uno dei suoi territori più negletti. A costoro saranno garantite accoglienza, protezione, assistenza sanitaria nell’ambito delle attività del vicino H.E.W.O. Hospital, e saranno assicurati percorsi di formazione e reinserimento sociale e lavorativo.
«Una storia strana», confida Giuseppe Milanese, «che parte da lontano, da un diario lasciato e ritrovato, da una vita spezzata troppo presto e che continua a guidare, su una strada fatta di amici conosciuti quasi per caso, in un incrocio di vite che cercano un filo di speranza che colleghi la terra al cielo, e che ci porta dove non saremmo mai andati, con il cuore che respira in un gioco che non è nostro». Per concludere: «I volti e i sorrisi di questi bambini rimarranno per sempre nel nostro cuore e anche tu, spero, sarai felice perché, anche questa volta, tramite apparenti coincidenze, ci hai portato a fare quello che desideravi».
Il prossimo lunedì 18, negli spazi del Teatro Santa Chiara di Roma, una iniziativa per raccontare i progetti della Fondazione Anna Milanese (www.fondazioneannamilanese.com), proiettare il documentario del recentissimo viaggio in Etiopia, dirsi ancora una volta che «Anna è viva, evviva Anna!». Giuseppe Florio