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Il paradosso di Millo: il lillipuziano che diventa un gigante

da Cosimo Saracino
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Da alcuni giorni, piccole folle di volti assortiti si danno il turno in modo quasi ordinato, da mane a sera, in un quartiere fino all’altro ieri dimenticato da Dio e dagli uomini, per cercare di spiegare il mistero del giovane artista mesagnese Francesco Giorgino (noto come Millo) che, armato di un pennellaccio ed un secchio di vernice, in cima ad un montacarichi, infonde vita a pareti emaciate di vecchie costruzioni popolari. Lo sforzo di costoro sembra vano, perchè l’arte, un po’ come la verità pirandelliana, non si può spiegare: «Io sono colei che mi si crede».
La scena, reiterata ad oggi per 4 pareti (ma alla fine, entro sabato prossimo, saranno le 5 dirimpetto al nuovo parco cittadino), è innanzitutto un formidabile paradosso, il paradosso di Millo: che, alla stregua di un lillipuziano, sembra armeggiare con una tela millemila volte più grande di lui, ed invece è un autentico Gulliver che generosamente centellina un po’ della sua grandezza.
Così, tutto intorno – gli spazi, gli edifici, le persone, le stesse abitudini – sembra non solo acquistare grandezza fisica, ma anche «grandeur», che è quella sorta di nobiltà di sentimenti, princìpi, aspirazioni tipica delle comunità di lignaggio più alto di quello mesagnese. Millo, il minuscolo enorme writer nato a Mesagne e poi autodeterminatosi cosmopolita, usa la rozza spatola da imbianchino come una bacchetta magica o una esclusivissima excalibur: porta i colori ed i profumi delle più diverse civiltà da una parte all’altra del mondo, le contamina vicendevolmente, così che a Mesagne c’è un pizzico di Pechino o di Minsk ma, c’è da esserne certi, a Lisbona porterà qualcosa della sua città natale.
Per lui nulla è provincia e tutto è provincia, rimbalzando (da «globetrotter», come suole definirsi) da una nazione all’altra, non disdegnando di comunicare tout-court in inglese o in dialetto mesagnese, di ingozzarsi di couscous o di cozze con la panna: Millo parla (e quanto bene!) la lingua universale del sapere e così restituisce universalità e dunque significato anche alle cose che per tanto tempo ci sono apparse insignificanti.
L’esperienza mesagnese è chiara: antichi proverbi in vernacolo come «ddò arriu chiantu lu zippu» o «turci vinchitieddu quandu eti tinirieddu» o «ccugghi l’acqua quandu chiovi» hanno l’efficacia, sotto l’egida della mirabile intepretazione di questo artista, di una lezione morale, di un messaggio all’umanità intera. Lui «ci» legge, legge le chiavi della nostra comunità, legge la storia che ci ha accompagnato nei secoli e poi «ci» traduce in un esperanto immediatamente comprensibile. Millo strappa Mesagne dall’angolo in cui si era cacciata e la rilancia, anzi: la catapulta, nel mondo.

Giuseppe Florio

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