La sonora bocciatura referendaria del 4 dicembre scorso pare abbia prodotto come effetto collaterale, ma non per questo meno importante e secondario, l’annichilimento del dibattito sulla necessità delle riforme istituzionali. Oltre trenta anni di dibattito parlamentare e dottrinario (la prima commissione bicamerale Bozzi data 1983; seguirà quella De Mita – Iotti del 1993, a seguire quella D’Alema del semipresidenzialismo del 1997, sino ai giorni nostri ) svaniti nel nulla.
Nessuno più ne parla: la politica tace; la produzione accademica è silente parimenti e l’opinione pubblica si interroga: ma sinora abbiamo scherzato?Le riforme istituzionali erano considerate tanto importanti per le stesse sorti dell’Italia che le forze politiche non andavano molto per il sottile nella ricerca di alleanze, anche contro natura per così dire. In tanti ricorderanno che D’Alema, allora segretario del PDS, venne eletto Presidente della Bicamerale nella XIII legislatura.
Le cronache del tempo riportano che in suo favore votarono, tra gli altri, i rappresentanti di Forza Italia in virtù di un accordo che prevedeva, per accontentare le forze politiche che vi aderirono, l’elezione di 3 vicepresidenti: Leopoldo Elia (PPI), Giuliano Urbani (Forza Italia) e Giuseppe Tatarella (AN) (finanche).
Poi Berlusconi fece saltare il tavolo e non se ne fece più niente e addio “semipresidenzialismo”. Comunque, per ragionare su dati fatto, lasciando agli esperti o presunti tali la lettura “dietrologica” degli avvenimenti politici, un dato è certo: gli italiani tendono a respingere modifiche costituzionali così pervasive da alterare i meccanismi istituzionali regolamentati dalla Costituzione del “48 figlia della Resistenza.
Tanto la “Devolution” di Berlusconi, quanto la riforma Renzi – Boschi, prevedevano la modifica di circa un terzo dei 139 articoli della Costituzione: entrambe le riforme sono state respinte dal popolo italiano allorquando è stato chiamato a rispondere con il referendum confermativo ex art. 138 della Costituzione.
Agli italiani evidentemente piace la forma di governo parlamentare per così come è disegnata dalla Costituzione. Una classe politica appena appena attenta, e un poco meno autoreferenziale, dovrebbe fare tesoro della volontà espressa dagli elettori.
Ciò detto, è da tutti accettato il principio che interventi mirati a garantire la governabilità e la stabilità di indirizzo politico di un paese, insieme alla difesa della espressione del diritto di voto degli elettori che dà legittimità alla politica, può contribuire ad affrontare e, nel caso, risolvere i gravi problemi economici che la crisi ha provocato.
Tuttavia va anche detto che nel mentre le iniziative legislative contro la crisi hanno molte volte valore ed efficacia contingente, quelle che hanno ad oggetto la struttura di uno Stato sono invece concepite per migliorarne l’assetto istituzionale e perciò dovranno essere necessariamente di lunga durata non essendo concepibile modifiche delle forme di governo o degli assetti istituzionali in genere, ogni volta che si registra un cambio di maggioranza politica.
Piegare gli assetti istituzionali alle esigenze contingenti è frutto di bassa politica. Qualche esempio lo abbiamo registrato anche di recente. Per tutti valga la riforma dell’art. 81 della Costituzione durante il governo Monti che ha introdotto in Costituzione l’obbligo del pareggio di bilancio, o, come dicono i costituzionalisti “ha costituzionalizzato la crisi economica”.
Tanto per non smentire quanto innanzi detto, in quella occasione, con un quorum richiesto di 214 su 321 necessari per evitare il ricorso al referendum confermativo votarono a favore Pdl, Pd, e il Terzo Polo (Udc, Fli e Api). (Solo per la memoria si rammenta che il segretario politico del PD era Bersani). La cronaca attuale ci racconta che sulla nuova legge elettorale sembra che si vada formando una intesa tra Partito Democratico, Berlusconi e Movimento 5 Stelle: nihil sub sole novum.