Home Dal Territorio L’intercultura come risposta alle sfide del XXI secolo – di Ruggiero Ludovico

L’intercultura come risposta alle sfide del XXI secolo – di Ruggiero Ludovico

da Cosimo Saracino
0 commento 291 visite

12719603_10201513599558234_9036372863730119681_o
“Sono molto dispiaciuto e deluso, non per me, ma per quello che potrebbe arrivare ai miei figli. Dicono in giro che spaccio droga, solo perché ho comprato una casa decorosa e conduco una vita normale, come la vostra. Non vedono tutti i sacrifici che facciamo, o che a casa non ci sto mai perché lavoro dalla mattina alla sera e spesso anche i fine settimana”. Questa confidenza mi è stata fatta da Ilir, un albanese di 38 anni, da poco trasferitosi  insieme alla moglie e ai due figli a Mesagne, il mio paese, per ragioni di lavoro ( Ilir è responsabile di un noto ipermercato per la grande distribuzione non alimentare nella provincia di Bari).

  Riflettendo bene sull’amaro sfogo di quest’uomo, due sono i problemi che traspaiono e che effettivamente affliggono il nostro periodo storico:

– la “crescente diversità”, caratterizzante la nostra società multietnica, è accompagnata dal prevalente atteggiamento di “paura dello straniero” e dal “sospetto del complotto” che causano pregiudizi e maldicenze, ma anche violenza e conflitti;

– conseguentemente all’atteggiamento sopra indicato, ciò che trasmettiamo ai nostri figli e alle nuove generazioni, è un comportamento di chiusura verso il “diverso”, verso lo straniero. Insegniamo a dubitare e temere chi ha un colore della pelle, o parli una lingua, o pratichi una religione che non sia come la nostra.

Oggi l’Italia può essere sicuramente considerato un paese multiculturale. Ma andiamo con ordine: nel 1861, anno dell’Unità d’Italia, gli “stranieri” presenti nel nostro paese erano 88.639 (pari ad un’incidenza dello 0,4% sulla popolazione residente). Nel 2011, invece, gli immigrati regolarmente presenti in Italia superano la soglia dei 5.000.000 (di cui 1,3 milioni comunitari) su 60.650.000 di residenti, circa 50 volte in più rispetto al passato (incidenza dell’8,2% del 2011). Sono questi i dati contenuti nel Dossier Caritas-Migrantes.

10926337_10200105182148679_2132196004493977300_oE ancora, secondo Caritas- Migrantes, gli immigrati incidono per oltre un sesto nelle cooperative di pulizie e per oltre un terzo in quelle che si occupano della movimentazione merci, mentre nel settore imprenditoriale i nati all’estero incidono per il 9,1%, se si considerano tutte le cariche imprenditoriali, e per il 7,4% se si restringe l’attenzione ai soli titolari d’impresa, aumentati di 21.000 unità nel 2011 (Unioncamere), mentre i titolari con effettiva cittadinanza straniera (249.464) incidono per il 4,1% (Cna).

Ciò che emerge con forza dal dossier Caritas-Migrantes è la fotografia di un paese che, per certi versi, ha cominciato a “guardarsi allo specchio” e a rendersi conto che gli stranieri in Italia sono una presenza necessaria alla crescita del paese. Non mancano infatti esempi di migranti che si sono integrati nella nostra società in modo eccellente. Che studiano, si laureano, lavorano e pagano le tasse come tutti i cittadini italiani.

Belle storie che parlano di una società che ha voglia di ripartire e di impegnarsi per la costruzione di un futuro più prospero e per realizzare una società dal ricco tessuto sociale.

Purtroppo però, bisogna aggiungere, la maggior parte delle storie non è a lieto fine e non parla di integrazione, di scambi e di dialoghi. E’ un periodo storico difficile quello che stiamo vivendo, tra paura e violenza, spesso causati dalla mancanza di conoscenza dell’altro e della sua storia di vita. Così diventiamo spettatori, senza nemmeno stupirci, di blocchi, di manifestazioni, degli assalti che accompagnano i trasferimenti dei profughi in campi, scuole e caserme vuote. A Roma o a Treviso, non importa. Iniziative organizzate da residenti.  Fiancheggiati da “militanti della paura”, esterni alla comunità. Eppure l’Italia è da oltre un ventennio terra di immigrazione. Dopo essere stati, per secoli, Paese di emigranti. Diretti oltre oceano, dove sono rimasti. A milioni.

L’Italia, in particolare, è divenuta, negli ultimi vent’anni, tra le nazioni con il maggior flusso di immigrati. Costellata di piccole e piccolissime imprese artigiane. Dove la manodopera non è certo italiana. Visto che i nostri giovani, i nostri figli, se ne vanno in massa, dal nostro paese. Ma non per lavorare in fabbrica… Anche noi, infatti, siamo un popolo di migranti. Gli italiani che cercano un futuro all’estero sono sempre più numerosi. È un fenomeno antico, che negli ultimi anni ha ripreso a crescere. Ormai il flusso di espatri ha raggiunto livelli importanti. Se negli ultimi tempi il ritmo fisiologico era di circa 40-50mila partenze l’anno, più recentemente sono stati superati i 100mila emigrati l’anno. E così oggi i nostri connazionali che vivono all’estero sono quasi cinque milioni. 4.811.163, secondo gli ultimi dati disponibili.

Tornando alle preoccupazioni suscitate dall’immigrazione verso la nostra terra, possiamo affermare che stano aumentando in fretta, negli ultimi mesi. Soprattutto in tema di sicurezza: dal 33% al 42% della popolazione, da gennaio ad oggi (Sondaggio Demos, giugno 2015). Mentre risulta stabile – e ampia – la sensazione che gli immigrati costituiscano una minaccia all’occupazione: intorno al 34-35%. L’impatto dei flussi migratori sul piano della cultura, dell’identità e della religione, a sua volta, coinvolge circa un terzo degli italiani. Non si tratta di un fenomeno nuovo. L’immigrazione è sempre stata motivo di tensione. Da quando abbiamo iniziato a rilevare gli orientamenti dei cittadini al proposito. Cioè, dalla fine degli anni Novanta. Tuttavia, il livello di inquietudine più elevato si registra fra il 2006 e il 2008. In particolare nel 2007, quando oltre il 50% degli italiani definisce l’immigrazione un pericolo per la sicurezza e l’ordine pubblico. Mentre il 37% la percepisce come una minaccia all’occupazione.

   “La paura dei  barbari – segnala Todorov – è ciò che rischia di renderci barbari”. Alimentando ad arte i sentimenti di paura e di insicurezza, in modo particolare in un periodo di profonda crisi economica e sociale, gli “imprenditori della paura” continuano in quell’eterno processo di “costruzione del nemico” e del capro espiatorio sempre utile per deviare l’attenzione della pubblica opinione dai problemi reali e per orientare in senso xenofobico le campagne elettorali 2.

  Todorov è convinto che l’unica strada perseguibile sia quella della ricerca del dialogo a partire da ciò che accomuna gli uomini e i loro bisogni, a prescindere dalle specifiche appartenenze culturali. La definizione del barbaro presuppone un forte etnocentrismo che vede nell’alterità una minaccia e una forma di inferiorità. La barbarie consiste nel non riconoscere l’umanità degli altri, mentre la civiltà è precisamente la capacità di vedere gli altri come altri e ammettere, allo stesso tempo, che sono umani come noi.

  Le enormi disparità nella distribuzione delle risorse, le guerre, lo squilibrio fra paesi ricchi e poveri producono, e produrranno sempre più, processi di mobilità umana (Portera, 2006). “Noi viviamo in un’età planetaria con una coscienza neolitica” (Balducci, 2005). L’inarrestabile processo di globalizzazione che caratterizza la nostra epoca sta portando all’omologazione delle persone, all’interdipendenza delle economie e dei mercati internazionali, all’uniformazione dei prodotti di consumo e delle tecnologie. Tutto questo ha generato una società multiculturale dove, con il temine “multi-cultura” intendiamo la compresenza, su uno stesso territorio, di popoli diversi per lingua, etnia, cultura. Questa realtà, oggi sempre più diffusa, vede diverse popolazioni convivere tra loro senza che questo comporti necessariamente confronto, incontro , scambio 3.

  La scuola, il sistema educativo e formativo sono chiamati in causa con forza e la pedagogia ha il compito non rinviabile di tracciare i “lineamenti fondanti nell’attuale stagione del pluralismo e della complessità”.

La via dell’inter-cultura appare quindi l’unica percorribile per far fronte alle nuove sfide provenienti dalle trasformazioni della società. “L’inter-cultura rimanda più ad un progetto che ad una semplice attestazione di fatto: presuppone cioè l’idea (e l’impegno) a ricercare forme, strumenti, occasioni per sviluppare un confronto e un dialogo costruttivo e creativo. L’inter-cultura esprime dunque un concetto più dinamico rispetto alla dichiarata staticità del concetto di multi-cultura. In tal senso presuppone la capacità e la volontà di promuovere situazioni di analisi e comparazione di idee, valori, culture differenti alla ricerca di intese e di punti d’incontro che non annullino le differenze ma che le esaltino, attraverso un intreccio dialettico di scambi necessari per il reciproco riconoscimento”.

Oggetto della pedagogia interculturale è la persona che ri-conosce se stessa ri-conoscendo l’altro attraverso l’incontro. Per Luigi Secco oggetto della pedagogia interculturale è il confronto del pensiero, dei concetti e dei preconcetti, divenendo una pedagogia dell’essere, dove al centro è posta la persona umana nella propria interezza a prescindere dalla lingua, cultura o religione di appartenenza.

hands-shutterstockAbdallah-Pretceille colloca al cuore della problematica interculturale il processo di acculturazione che viene concepito come luogo dell’incontro e del rapporto con l’altro. L’acculturazione è il processo mediante il quale un gruppo di individui o un popolo assume, in seguito a migrazioni o a contatti diretti, la cultura di un altro popolo, generando cambiamenti in entrambi i gruppi. Questo processo presuppone che nessuna cultura è isolata e autosufficiente, ma si fa e si trasforma attraverso l’incontro-scambio con altre culture differenti. Il processo di acculturazione non annulla le singole culture locali ne le fonde ma, prendendo l’una dall’altra fa si che si “mescolino”, mantenendo ognuna la propria identità e convivendo pacificamente alimentandosi di scambi ed interazioni.

Hebermas evidenzia un ulteriore caratteristica del processo di acculturazione attribuendogli un significato politico, poiché si tratta di superare il multiculturalismo, inteso nel significato di separatezza intenzionale e impermeabilità delle culture. Di fatto, il fallimento del multiculturalismo avviene poiché esso non è in grado di esprimere un progetto di società civile, per il semplice fatto che esclude in linea di principio la possibilità e la necessità di edificare un mondo comune. Ovvero delinea una situazione statica del fenomeno della convivenza di culture differenti, senza che questo comporti incontro, confronto, scambio.

Certamente è necessario un lungo apprendimento per la formazione di un pensiero interculturale, relazionale e dialogico, poiché con esso si crea la disponibilità a uscire dai confini della propria cultura per entrare nei territori di altre culture, imparando ad osservare, a conoscere e a interpretare la realtà con schemi e sistemi diversi dal solito. Apprendere l’inter-cultura significa in primis apprendere a costruire un pensiero interculturale che – consapevole della sua costitutiva multiformità e complessità della società-mondo –  volga verso la formazione di una neo-cittadinanza,  ovvero quella di un cittadino del mondo. Tale neo-cittadinanza si forma attraverso un’educazione alla differenza e al pluralismo, all’ascolto e alla cura dell’altro, alla pace e al rispetto dei diritti umani.

L’acquisizione di questo nuovo modo di pensare e di concepire la vita presuppone vi sia un apprendimento lungo tutto il corso della vita (lifelong learning), in differenti luoghi (formali, non formali, informali) e in una cornice profonda di valori e idee co-costruiti nelle e dalle culture (life-deep learning).

Possiamo dunque affermare che la competenza interculturale non è innata, ma deve essere intenzionalmente progettata, e il sistema scuola assume un ruolo di traino nella formazione ai processi necessari. Soltanto l’educazione e la formazione possono proporre un nuovo essere umano, perché solo i loro processi sono trasformativi del profondo. In termini estremi, solo l’educazione e la formazione progettano e hanno tutti i dispositivi esecutivi, i “mutamenti antropologici”.

Il dilatarsi dei contesti richiede il riconoscimento per tutti di alcuni valori di carattere universale – dignità di ogni persona, libertà, uguaglianza, solidarietà, cittadinanza, giustizia – che si fanno, si chiariscono e si realizzano nella coscienza di ciascun uomo per divenire spazio sociale e agente di mutamento culturale.

E’ nel contesto, nel quale si delineano e prendono forma le esperienze, che avvengono gli apprendimenti che educano e formano le menti, atteggiamenti e competenze interculturali, dove gli scambi evidenziano un sistema di vincoli e opportunità che co-costruiscono relazioni di reciprocità. D’altro canto è l’influenza del contesto che viene riconosciuta come fonte di sviluppo di particolari intelligenze o competenze così come l’apprendimento culturale è dominio- specifico in quanto strettamente collegato al contesto, inteso all’interno di una rete di rapporti in cui sono inseriti i vari oggetti dell’apprendimento.

“La pace è un sogno, può diventare realtà… Ma per costruirla bisogna essere capaci di sognare” (Nelson Mandela). Nelson Mandela, però, diceva anche: “Sappiamo cosa deve essere fatto: tutto ciò che manca è la volontà di farlo”.

“Dopo aver attraversato io stesso le frontiere, ho cercato di facilitarne il passaggio degli altri. Prima, frontiere tra paesi, lingue, culture; poi, tra ambiti di studio e disciplinari nel campo delle scienze umane. Ma anche le frontiere tra il banale e l’essenziale, tra il quotidiano e il sublime, tra la vita materiale e la vita spirituale. Nei dibattiti, aspiro al ruolo di mediatore. Il manicheismo e le cortine di ferro sono ciò che amo di meno”. (Todorov, 2010)

La seguente ricerca, condotta a Padova tra il gennaio del 2000 e marzo del 2001, è uno dei tanti modi per superare “ la frontiera tra me e l’altro” e si è concentrata su incontri, organizzati da associazioni cittadine, che hanno coinvolto il Consiglio delle Comunità Straniere, la Moschea di Padova e un’associazione interculturale di donne. Nel primo incontro, i rappresentanti del Consiglio delle Comunità Straniere sono invitati, a turno, a raccontare la propria esperienza di migrazione, i motivi che l’hanno determinata, le tradizioni culturali del proprio paese d’origine e i problemi incontrati nella società d’accoglienza. L’iniziativa, il cui titolo era “Conosciamoci di più per convivere meglio”, intendeva offrire un’opportunità di dialogo tra stranieri e cittadinanza con lo scopo di confrontarsi con stereotipi radicati nell’immaginario locale.

Il secondo caso di studio vede al centro dell’interesse la Moschea, ovvero vivere l’Islam in una situazione di diaspora. Questi incontri di carattere ecumenico vengono organizzati dalla diocesi di Padova ed intitolati “L’Islam si racconta” e hanno lo scopo di favorire il dialogo interreligioso. Un piccolo gruppo che frequenta la moschea, tra cui l’Imam e i responsabili amministrativi con mogli e figli, sono intervenuti per raccontare cosa significhi essere musulmani e vivere la propria fede in condizioni di migrazione.

Dialogo_interrculturaleTerzo caso di studio: le donne marocchine parlano. “Colori di donna” è un’associazione interculturale, nata a Padova nel novembre del ’99, costituita da donne immigrate, donne italiane e donne che hanno acquisito la cittadinanza italiana. Da febbraio a settembre 2000, l’associazione ha organizzato un ciclo di incontri intitolato “Donne altrove. La condizione della donna: cultura, tradizioni, ragioni dell’emigrazione”: una domenica al mese alcune donne dell’associazione, coinvolgendo altre donne del loro paese, si presentavano al pubblico cittadino. Gli incontri erano divisi in due parti: un primo momento in cui le donne parlavano del proprio paese e dei motivi che le avevano spinte a emigrare servendosi di diapositive, mappe, artigianato e persino ricostruendo l’interno delle abitazioni; un secondo momento, in cui veniva servita una cena tradizionale in cui la divisione tra pubblico e migranti si rompeva attraverso la convivialità. Ciò che resta è che l’immagine proiettata dalle donne del Marocco in quell’occasione contrasta vivacemente con lo stereotipo che vede la donna musulmana passiva e sottomessa all’uomo. Al contrario, si tratta della rappresentazione di un’identità femminile che rivendica un ruolo attivo all’interno della famiglia e della società musulmana.

Gli esempi qui riportati ci hanno permesso di guardare all’interazione sociale, costituita da questi incontri pubblici, come a un palcoscenico in cui i partecipanti-attori hanno interpretato e reso visibile una rappresentazione del sé e del proprio sistema di valori. Attraverso questi progetti, questi confronti tra popolazione locale e immigrati che aspirano a un riconoscimento, con molte difficoltà può nascere un dialogo e certamente una maggiore comprensione tra le varie culture.

Particolarmente utili paiono, nella prospettiva della mente interculturale, le considerazioni svolte da Todorov sull’identità o meglio sulle identità. Secondo l’autore, infatti, ognuno di noi possiede non una ma numerose identità culturali che si sovrappongono e si intersecano. Ogni individuo è di per sé pluri-culturale: “L’identità individuale deriva dall’incontro di molteplici identità collettive in seno a una sola e medesima persona: ciascuna delle nostre numerose appartenenze contribuisce alla formazione dell’essere unico che siamo. Gli uomini non sono né tutti simili, né interamente diversi; ciascuno di essi, essendo in sé plurale, condivide i suoi tratti costitutivi con gruppi molto diversi tra loro, ma li combina a modo suo. La coabitazione delle differenti appartenenze culturali in ciascuno di noi non pone di per sé alcun problema, cosa che, a sua volta, dovrebbe suscitare ammirazione: come un giocoliere, maneggiamo questa pluralità con la massima facilità”.

Ciascuno di noi ridefinisce continuamente gli equilibri delle differenti appartenenze. L’identità individuale è il frutto dell’incrocio tra diverse identità collettive così come non esistono culture pure e culture mescolate. Tutte le culture sono miste, ibride, “meticciate” perché i contatti tra gruppi umani risalgono alle origini della specie e lasciano sempre dei segni o delle tracce. Definire, cogliere e insistere sull’identità – come ha sostenuto Francesco Remotti – è pericoloso e conduce a quella che è stata da lui definita come “ossessione identitaria”. “La tesi che si vuole sostenere è che identità – specialmente nell’uso che se ne fa negli ambienti sociale, politico, individuale, a livello di senso comune, oltre ché scientifico – è una parola avvelenata. Il veleno contenuto in questa parola così nitida e bella, così fiduciosamente condivisa, di impiego pressoché universale, può essere poco oppure tanto, impercettibile e quasi innocuo in un caso oppure pieno di conseguenze nefaste in un altro ( ricordiamoci le conseguenze subite dal popolo ebreo dalla propaganda hitleriana sull’identità ariana). Ma anche quando esso è impercettibile, la tossicità è presente in numerose idee che la parola contiene e, accumulandosi, può manifestarsi alla lunga, in maniera inattesa e imprevista. Perché e in che senso identità è una parola avvelenata? Semplicemente perché promette ciò che non c’è; perché ci illude su ciò che non siamo; perché fa passare per reale ciò che invece è una finzione o, al massimo, un’aspirazione. Diciamo allora che l’identità è un mito del nostro tempo. Le identità possono quindi diventare pericolose e mortali così come può diventare pericolosa la reificazione delle diversità.

In conclusione diciamo che il compito di costruire questo “nuovo” pensiero interculturale, questo nuovo modo di rapportarsi agli altri, al mondo, a chi è diverso da noi, è sicuramente delle Istituzioni, della scuola e dell’università, dei professori e degli insegnanti. “C’è bisogno di una trasformazione, che equivale a un radicale cambiamento di modo di pensare e di vivere. Per questo gli intellettuali hanno una responsabilità enorme. Questa trasformazione eroica richiede di capovolgere tutti i nostri sistemi di valori”.

Però, a mio parere, un ruolo fondamentale lo ricopre anche e soprattutto la famiglia. E’ a noi adulti, a noi genitori, che fanno riferimento i ragazzi e dai quali prendono esempio. Per questo motivo noi uomini e donne adulti dobbiamo necessariamente riformare il nostro pensiero, migliorarlo, per poter formare le nuove generazioni in modo più costruttivo, equo, etico: interculturale.

Potrebbe piacerti anche

QuiMesagne – redazione@quimesagne.it
Testata giornalistica Qui Mesagne registrata presso il Tribunale di Brindisi Registro stampa 4/2015 | Editore: KM 707 Smart Srls Società registrata al ROC – Registro Operatori della Comunicazione n. 31905 del 21/08/2018

Amministratore Unico/Direttore Editoriale: Ivano Rolli  – Direttore Responsabile: Cosimo Saracino

Copyright ©2022 | Km 707 Smart Srls | P.I. 02546150745

Realizzato da MIND