Maledizione alla vecchiaia, età che ti allontana dal presente e ti incastra nell’epoca dei ricordi! A 45 anni anagrafici – 70 a dar retta alla risonanza magnetica della colonna, qualcosa in più considerando i deficit di memoria e di attenzione – ho per la prima volta difficoltà a scrivere di qualcosa. Io che, solitamente, sono verboso.
Mi è capitato con la vicenda artistica del figlio di amici cari, a cui voglio bene dalla più tenera età, che fino a ieri si chiamava Mattia Demitri e ora scopro essere noto con l’eteronimo di Med Blase. Ieri adolescente vivace e intellettualmente inquieto, oggi – spero di non usare termini inappropriati – «rapper».
Va da sé che io e i miei già malandati timpani abbiamo avuto nulla da spartire con il rap, con il trap, ma anche con il funky, il grunge, l’hip-hop, l’industrial e, nella squallida realtà, anche con il jazz, il blues ed il rock (ringrazio Wikipedia per il suggerimento dei generi musicali): siamo stati pressoché da soli io e De Gregori, per quasi 35 anni. La difficoltà a scrivere di Mattia “Med Blase” è dunque duplice: per l’affetto che gli porto e per essere la persona più culturalmente inadeguata. Tuttavia da qualche tempo c’è qualcosa che mi preme dentro, che preme per uscire come mi accade puntualmente ogni volta che avverto l’urgenza di intervenire a mezzo stampa, anche a costo di scrivere di politica ed urticare contendenti troppo eccitati.
Per Mattia è successo quando, nottetempo, ho ascoltato il primo pezzo pubblicato sugli store digitali e guardato la clip su YouTube: si trattava di “Vuoto”, una canzone che racconta con incredibile dolcezza una storia d’amore finita male. Confesso di aver dapprima temuto che si trattasse di una roba sgradevole e poi di averla ascoltata con piacere, con un piacere inedito, e poi di averla acquistata, per premiare l’autore. Ne ho allora saggiata un’altra (“Monsters”) e mi è piaciuta pure quella, pur non comprendendone le ragioni. Poi, ovviamente, mi sono bloccato davanti al foglio bianco, incapace di buttare giù qualcosa che somigliasse ad una recensione, frustrato oltre misura. Dopo alcuni mesi, proprio la scorsa notte, un messaggio Whatsapp di Mattia che mi notificava seccamente, senza ulteriori commenti, la pubblicazione di un altro brano su Spotify (“Casa tua”).
Nuovo attacco di panico, lo ascolto comunque, conscio di non poter far altro ma… Anche questo pezzo mi è sembrato carino, per quanto ne possa capire, il testo usa uno slang un po’ più duro ma è ben costruito (mica facile sincopare con rime che devono sfuggire alla banalità del rimario italiano) ed ho comprato anche questo. Con orgoglio. E solo dopo ho capito perché mi sentissi orgoglioso. Perché c’è da essere fieri di questa generazione che, senza altri mezzi che l’autoproduzione, mette in campo il proprio talento e si sforza di emergere, di svettare nell’indistinta folla. Ma anche perché io stesso, che mi percepisco come un vegliardo, ho peccato per troppo tempo di alterigia verso questi giovanotti sconsiderati, troppo moderni e un po’ osé per i miei gusti. Invece Mattia mi ha insegnato che il talento parla una lingua universale e quindi ci si può capire anche a distanza di generazioni, che la musica è uno strumento poderoso, tanto da raggiungere i gangli del piacere di un 45enne presuntuoso, e che i giovani sono il più formidabile spettacolo a cui si possa assistere. Intanto, buona fortuna a Med Blase! Giuseppe Florio