di Nico Pettograsso* – Non voglio fingere fanatismo o estremismo, che non ho e non mi appartengono, ma di fronte all’importate appuntamento del referendum costituzionale del 4 dicembre ho deciso di impegnarmi, e molto, a favore del SI. Il mio non sarà un voto sull’operato del governo ma sui contenuti del nuovo assetto istituzionale, e pertanto non entro nel merito di lecite analisi politica sul presidente Renzi ma parto direttamente motivando la mia scelta.
So di essere uno dei tanti cittadini non esperti di questioni di diritto, ma questo per i Padri Costituenti non fu certamente un problema. Scegliendo di affidare la revisione della nostra Carta fondamentale ad un Referendum ebbero fiducia di noi: sapevano che tanti, la maggior parte, non sarebbero stati professionisti ma a tutti riconobbero lo stesso ruolo. Intendo motivare la mia adesione al cambiamento che considero necessario proprio per non tradire il vero spirito riformatore della costituzione del ’48.
Queste mie riflessioni iniziano con un parere molto poco popolare in questi giorni e altrettanto poco pragmatico, ma il clima politico cosi tristemente aspro fa sì che il primo argomento con cui demolire la riforma è quello inerente la legittimità dell’intero iter di revisione portato avanti, a dire di qualcuno, da un parlamento illegittimo e da un premier non eletto dal Popolo Sovrano. Il primo articolo della nostra costituzione non dà al popolo una sovranità assoluta: i Padri ben sapevano che la convivenza civile doveva partire da un’autolimitazione di libertà. Nell art.1 leggiamo infatti:
“La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”
I limiti imposti dalla Costituzione sono le regole in essa dettate e le istituzioni che definisce: basta dire quindi che il parlamento è illegittimo, basta dire che il governo non può agire perché non è eletto.
Sulla legittimità del parlamento si è espressa abbondantemente la Corte Costituzionale: sì! È stato eletto con una legge che aveva elementi di incostituzionalità, ma l’art. 136 della nostra Carta Fondamentale è chiaro sull’argomento:
“Quando la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale di una norma di legge […] la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione.”
Pertanto la legge elettorale è decaduta solo il giorno successivo alla pubblicazione di sentenza e per la chiara non retroattività della stessa il parlamento è legittimo; inoltre, per evitare dubbi o fraintendimenti, la sentenza riconosce esplicitamente al parlamento di proseguire il suo mandato. Chi non accetta questo o non (ri)conosce la costituzione del ‘48 o è in malafede!
Sull’elezione del Governo la questione è ancora più subdola è ingannevole: sempre la legge elettorale incostituzionale stabiliva di scegliere il nome del candidato alla presidenza del consiglio e trovo questo surreale nel nostro ordinamento: un elemento di incostituzionalità (al quale nessuno fa riferimento) altrettanto plateale quanto le liste bloccate. Negli art. 92 e 94 leggiamo:
“Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei Ministri e, su proposta di questo, i Ministri.”
“Entro dieci giorni dalla sua formazione il Governo si presenta alle Camere per ottenerne la fiducia.”
Chi difende la costituzione del ‘48 deve riconoscere che in Italia non è mai avvenuta elezione diretta del capo del governo e che da nessuna parte è imposto che il Presidente del Consiglio debba essere un parlamentare; questo meccanismo può non piacere ma i Padri furono chiari. Anche chi non accetta questo argomento, dunque, o non (ri)conosce la costituzione del ‘48 o è in malafede!
Per i più audaci sostenitori dell’illegalità dell’intero processo di revisione, il referendum popolare darà un chiaro e incontrovertibile verdetto non sul governo (per questo c’è il parlamento che dà o meno la fiducia) ma sulla legge che votiamo il 4 dicembre.
Perché cambiare la Costituzione? Spero ora di riacquistare un po’ del pragmatismo perso precedentemente. Noi cambiamo la Costituzione perché in molti elementi è superata: di questo ne è consapevole la maggioranza degli italiani: non si sarebbero investiti (o persi?) tanti anni di discussioni sull’argomento (il primo tentativo di riforma fu nel 1983 con la commissione bicamerale Bozzi che non riuscì nel suo intento per il solito mancato accordo tra i partiti); la consapevolezza di una riforma è provata dal confronto costante con gli altri paesi che ci circondano e che, pur non avendo costituzioni cosi “baroccheggianti”, sono delle democrazie compiute come la nostra e spesso si dimostrano “con una marcia in più”.
La grande novità che la riforma introduce è il superamento del bicameralismo perfetto che, come hanno detto già in tanti e più Grandi di me, si è rivelato ampiamente imperfetto! Due camere sorelle ma elette con criteri differenti che generano maggioranze diverse: il risultato di ciò sono governi instabili. Sicuramente i meccanismi istituzionali previsti da una costituzione non garantiscono da soli la stabilità di un governo, ma ne sono un elemento necessario e poi, in concreto, qual è il problema di una sola camera che dà la fiducia al governo? La legge elettorale come direbbe Bersani? E qualora questa non dovesse cambiare, cosa ci scandalizzerebbe in un sistema maggioritario così come vollero gli italiani 25 anni fa con un referendum?
La necessità della fiducia di una sola camera faciliterebbe senza dubbio la vita degli esecutivi ma arrivare a dire che il parlamento verrebbe esautorato della sua funzione è assurdo: la riforma non prevede il vincolo di mandato (così come invece auspicato da tante forze del NO che hanno radici nel centro-destra) che sicuramente sarebbe un attentato alla funzione parlamentare e il preludio alla deriva autoritaria che tanti temono. In aggiunta a ciò, i nuovi limiti imposti alla decretazione d’urgenza, assieme alla certezza nella deliberazione di una proposta di legge (il nuovo iter garantisce leggi in 40 giorni contro l’attuale media di 500) riconferiscono alla camera quel ruolo di protagonista che i Padri avevano pensato.
Il nuovo Senato, seppure in pieno potere di discutere leggi votate dalla camera inviando ad essa raccomandazioni, entra nei meccanismi legislativi solo per il 5% dei casi e su tematiche che fondamentalmente riguardano gli equilibri tra stato e regione, le modifiche della costituzione, l’elezione del Presidente della Repubblica ed eventuali ripensamenti sulla nostra appartenenza all’Unione Europea. Onestamente, si è già discusso molto sulla questione ipotizzando la fine della democrazia quando ancora non conosciamo i contenuti della legge che stabilirà l’elezione dei senatori tra i consiglieri regionali e i sindaci; riparliamone a riforma attuata e a legge in discussione, ma si badi bene che, come previsto dalla riforma nel art. 57, la nuova legge elettorale garantirà il mandato degli elettori espresso con la votazione per il consiglio regionale sia attraverso i voti dei singoli consiglieri sia attraverso meccanismi che garantiscano la rappresentatività della composizione del consiglio.
La diminuzione del numero dei parlamentari (che qualcuno vorrebbe attuare con legge ordinaria) non può essere concepita come un attentato alla rappresentatività popolare: oggi in Italia abbiamo più di 10 volte il numero dei parlamentari degli USA e anche dopo la riforma saremo una delle democrazie più rappresentative.
Le nuove norme imposte per l’elezione del Presidente della Repubblica garantiranno il suo ruolo “super partes” (basti pensare che si passa dalla maggioranza assoluta degli aventi diritto al 60% dei votanti) con tutto ciò che ne deriva per la sua funzione di garanzia.
Le province, nella sostanza, non esistono più dal 2012 e già la riflessione precedente alla loro riforma, durata per anni, aveva abbondantemente sottolineato come fossero un ente da superare per la pessima efficienza dell’azione amministrativa e per le forti reti di influenza alle quali sono soggette; e poi, francamente, non è che ci manchi più di tanto!
È giusta la “generale” attenzione per tutelare spazi democratici atti a garantire una partecipazione politica attiva, la riforma va senz’ombra di dubbio in questa direzione: basti pensare all’abbassamento del quorum per i referendum abrogativi, al nuovo istituto del referendum propositivo e alla certa discussione in aula di leggi di iniziativa popolare (penso che la storia dell’aumento delle firme da 50000 a 150000 sia stata molto strumentalizzata: il numero rimane accessibilissimo e garantisce al Parlamento di non essere sommerso da proposte che riscontrerebbero poco interesse nella collettività – la polemica decade riflettendo sul fatto che per far indire un referendum occorrono minimo 500000 firme, ovvero un numero più di 3 volte maggiore, e ogni anno siamo chiamati a questo esercizio di democrazia per più di una proposta di abrogazione di legge).
Sul abolizione del CNEL non parliamo nemmeno: mi pare che non sia un argomento che riscontri successo neanche perfino tra i sostenitori del NO!
Entro nell’argomentazione del Titolo V solo marginalmente limitandomi a dire che anche in questo caso la riforma cerca di recuperare un po’ dell’omogeneità legislativa che la precedente modifica del 2001 ha cancellato recuperando lo spirito unitario voluto dei Padri. Essi erano consapevoli che non sempre il bene è immediatamente visibile e che occorre una progetto globale-nazionale che punti a durare nel tempo per garantire lo sviluppo, soprattutto sostenibile, della Paese. Non capisco poi l’opposizione dei meridionali sulla questione: le precedenti modifiche del 2001 furono fortemente volute dalla Lega Nord e non piacevano affatto alle regioni del sud; oggi si corregge la rotta nella direzione che allora auspicavamo. Lo stato centrale potrà scegliere, tra l’altro, degli standard sanitari omogenei su tutto il territorio nazionale garantendo il rispetto di questi vincoli: ciò porterà alla correzione di alcuni aspetti del federalismo sanitario che ha alimentato tante disuguaglianze.
Invito tutti coloro che hanno aderito al NO come una bocciatura del governo a rivalutare questa scelta. Come tutti gli italiani condivido l’importanza del confronto democratico e temo qualsiasi tipo di progetto autoritario che trasformi la nostra Repubblica in un’oligarchia, ma nelle pagine della riforma non leggo nulla in tal senso. Per quanto tempo, il Paese dovrà ancora attendere un cambiamento nelle sue regole costitutive? Per quanto tempo ancora dovremo cercare un compromesso tra le differenti sensibilità politiche che ci caratterizzano? Quante bicamerali o promesse di riforma dovremo ascoltare? Questa Riforma non è come quella votata nel 2006: lì si potevano intravedere i rischi che tanti oggi temono! La Riforma in discussione oggi non è una “Riforma a meta” o parziale, come dice qualcuno, bensì globale: il frutto di una riflessione durata 35 anni.
Altre dovrebbero essere le preoccupazioni per la Democrazia nella Nazione. Ben più inquietanti sono quei politicanti che, parlando alla pancia della gente della sovranità popolare, soffiano sulla rabbia e rendono il popolo cieco…. perché un popolo cieco può essere guidato più facilmente.
Se vincerà il SI sarò molto felice, se vincerà il NO mi dispiacerà, com’è ovvio che sia. Ma non sarà comunque la fine del mondo o del nostro paese: non cambierà nulla. Al di là della politica, che è importante, al di là dei problemi, che sono numerosi e nessuno nega, il mio è un SI forte e ragionato, convinto e orgoglioso, ma mai fanatism0.
*iscritto al Comitato “Basta un Si Mesagne”