Nell’imminenza della “festa della mamma”, data associata più ad un’idea di consumo che ad una riflessione sull’essere madre, molte di noi genitrici possono evocare emozioni sopite, parlare con i nostri figli dell’e-vento, magari ricordare fatti e circostanze legati al nome del ginecologo che ha visto crescere la relazione più bella della nostra vita.
In questa operazione di recupero rimangono spesso in secondo piano le ostetriche, figure fondamentali oggi, come ieri, sulla scena del parto; archiviata lo scorso secolo la pratica del parto in casa, la gravidanza si compie oggi come un processo organico da osservare, esplorare e da rendere completamente disponibile alla gestione medica, spesso “declinata al maschile”. Appare chiaro che, nonostante le lotte femminili e l’acquisizione di nuove consapevolezze generata anche dal movimento del ‘68, la concezione della gravidanza e del parto, divenuti ospedalizzati, continua ad ignorare gli attori principali. La maternità, infatti, non trova nel nostro vivere oggi la considerazione che merita: l’esperienza meravigliosa dei nove mesi e dei successivi risulta centrata sul corpo e sull’esito della nascita, facendo dimenticare l’importanza della pratica introspettiva e della costruzione di una relazione che ogni donna, già figlia, deve istituire con il proprio sé e con il proprio bambino. La gravidanza occupa, indubbiamente, una posizione intermedia tra natura e cultura, tra animalità e umanità. Ma, paradossalmente, con tutti gli strumenti e l’idea di dominio del tempo, oggi non riusciamo a viverla e farla vivere nella giusta dimensione, più come privilegio che come peso; di conseguenza, anche l’essere madre può riflettere questa concezione.
Ed ecco che il ruolo delle ostetriche, in quanto “donne che stanno accanto alle donne” per etimo, per spinta socratica all’ascolto e per pratica, a parer mio, potrebbe rivestirsi nel nuovo millennio di quella connotazione che nel passato non permetteva solo di sciogliere paure arcane, di mitigare il dolore al momento del parto, ma che istituiva mappe di relazione e restituiva giusta attenzione non solo al “corpo che attende”.
Per questo saper fare e dire, trasmesso da un codice antico giunto sino a noi sotto altre forme, dobbiamo sicuramente un grazie a tutte le levatrici che nel tempo hanno saputo interpretare al meglio questa vicinanza: non si trattava di assistenza medica, ma di considerazione e dignità, quello che spesso manca nella maternità e sulla scena del parto.
Eppure spesso rimangono oscuri i nomi e le identità delle donne che hanno posato sui nostri figli le prime mani ed il primo sguardo dell’umanità: per questo penso che raccogliere testimonianze relative alle levatrici e condividerle con la comunità di riferimento sia il modo più giusto per restituire una memoria non solo personale, ma appunto collettiva, non per celebrare ma per ricevere dal passato strumenti utili per interpretare il presente. Ed in questo senso si è mosso il mio lavoro di ricerca sulla iconica levatrice “Donna Gina” apparso sul numero di “Radici” (“Chiamate donna Gina! Levatrici in Mesagne: appunti di storia del primo cinquantennio del novecento”, in “Radici”, Anno XX, nn. 4-12 – aprile-dicembre 2016, pp. 27-44) presentato il 20 ottobre del 2017 presso l’Associazione “G.Di Vittorio” (http://www.divittoriomesagne.it/event/donna-gina-le-lesercito-delle-levatrici-condotte/).
A quell’evento aveva voluto partecipare la signora Stella Melpignano in Pezzolla, purtroppo scomparsa il 29 gennaio di quest’anno a 92 anni; era venuta a conoscenza dell’iniziativa il giorno prima, quando mi aveva accolta ed introdotta benevolmente nel suo mondo; all’inizio del nostro colloquio aveva manifestato il timore di non esprimere bene con le parole l’onda dei ricordi di un’intera vita spesa, come da lei detto con fermezza, “per portare a termine quello che Iddio aveva iniziato”, ovvero per agevolare il parto “che deve essere spontaneo e naturale, come è avvenuto tutto”.
Ma di quel timore, credo, lei riuscì a liberarsi quando i ricordi presero forma nei suoi spazi (il suo studio in casa dove si rifiutò sempre di praticare aborti, pur sapendo di perdere clienti), attraverso gli oggetti (come la borsa di pelle nera piena di strumenti tutti elencati con precisione, sottrattale una volta dall’automobile, o il telefono grigio a muro, uno dei primi in Mesagne, dal numero spesso confuso, con risultati divertenti, con quello del Professore Domenico Calò). Il suo racconto, lucidissimo, partendo da schegge di memoria personale, in poco più di un’ora, andò a comporre un quadro di storia collettiva in cui confluivano aspetti sociali, pratica medica, scelte di politica sanitaria.
Quel giorno la signora Stella evocò frammenti della sua lunga carriera, in cui si può menzionare un solo insuccesso su quasi 4000 parti, ricordò le colleghe “Donna Gina”, Papadia, Falcone, ricordò con emozione i medici con i quali ebbe a collaborare e fra tutti il Professore Alessandro Perrucci, promotore della sala parto e della Divisione ostetrica presso l’Ospedale di Mesagne. E’ stata lei, infatti, l’ultima delle ostetriche condotte in Mesagne e tra le prime a vedere nascere nell’ Ospedale “San Camillo de Lellis”, per mano del Professore Perrucci appunto, la divisione di ostetricia.
Le sue assistite erano soprattutto di età compresa “tra i 24 e i 26 anni” e per lei erano tutte uguali perché – diceva – le povere ed anche le prostitute avevano diritto alle stesse cure delle più fortunate”; con molte di loro si creava una relazione familiare attestata, secondo usi testimoniati in secoli andati, nel giorno del battesimo dei bambini.
Con orgoglio parlò della formazione acquisita presso l’Università di Bari, indicando il Diploma da essa rilasciatole e definì con convinzione i requisiti occorrenti per la professione ostetrica: cuore, vocazione e coraggio. Attraverso le sue parole emersero in modo semplice e pieno, oltre alla natura del lavoro missionario delle ostetriche, quella che lei definì “la bellezza del parto a domicilio”, di cui auspicava il ritorno, le pagine significative nella storia del dismesso Ospedale di Mesagne, di cui rammentava lo sviluppo architettonico e gli sforzi compiuti da tanti medici, “perché – diceva – quelle sono le figure importanti e non serve a niente avere un ospedale bello e grande se non funziona”.
Dopo il colloquio con la signora Stella non avevo solo l’impressione di avere ascoltato un testimone del passato e provavo un senso di riconoscenza che dovrebbe farsi comunitario; non solo, avevo acquisito una maggiore consapevolezza nel constatare quanto sia ingiusto oggi negare alle donne la gioia del parto in casa, come ricorrere alla pratica del “cesario” non sempre necessaria, quanto sia stato colpevole aver cancellato, con il pretesto di ottimizzare i costi, decenni di eccellente pratica medica presso il nostro ospedale, come avere subordinato alla medicalizzazione una professione quale quella ostetrica.
Il destino ha voluto che non potessi più incontrare la signora Stella ed ascoltare altri suoi racconti e sfogliare insieme a lei il manuale su cui aveva imparato le “nozioni”, ma serberò memoria della sua persona e delle sua identità professionale e, per quanto possibile, avrò cura perché non venga dimenticata assieme a quella di altri valorosi esponenti e simboli della sanità mesagnese, la cui storia oggi appare tristemente segnata da un’inspiegabile assenza di vere tutele.
Alessia Galiano
*Per questo piccolo contributo, ringrazio: Stella Melpignano – Andrea, Domenico, Giuseppe, Luigi, Maria Rosaria e Paolo Pezzolla; Agata Marsala; Angelo Sconosciuto e gli amici di “Radici”; Cosimo Faggiano e tutti gli amici dell’Associazione “Giuseppe Di Vittorio”, in particolare Emanuele De Nitto, Giovanni Galeone, Amelia Ignone, Cosimo Zullo; Giuseppe Indolfi