(di Gino Stasi) – È comprensibile che episodi di grande violenza, come quelli accaduti a Brindisi in tempi recenti, che hanno visto protagonisti dei ragazzini quindicenni nel ruolo di aggressori di propri coetanei, abbiano destato sconcerto e timore.
Senza dubbio essi sono la spia di una crisi educativa che investe in maniera più diffusa i nostri tempi e tutto il territorio nazionale. È naturale quindi che il pericolo che dilaghino ulteriormente fenomeni di questo tipo abbia messo in allarme genitori, educatori, coloro che presiedono all’ordine e alla sicurezza pubblica e semplici cittadini.
Qualche perplessità però sorge sull’adeguatezza e l’efficacia delle risposte adottate. Parlando in particolare del Daspo Willy, anche laddove si intravede in questo provvedimento il carattere di punizione esemplare che dovrebbe fungere da forte deterrente per il ripetersi di vicende analoghe, appare agli occhi di chi svolge compiti educativi, una misura forte ma, ciononostante, insufficiente per il contenimento del disagio che è alla radice di tali vicende. Almeno se si concorda sul fatto che la nostra società dovrebbe porsi come obiettivi quelli della prevenzione della devianza, dell’aiuto da fornire a chi vive fragilità di varia natura e, in ultima analisi, del recupero delle situazioni in cui si sono palesate gravi problematicità.
È vero che negli ultimi anni sembra essersi imboccata una strada diversa rispetto a quella che disegnano su un piano ideale questi tre obiettivi, da quando cioè i governi nazionali hanno cominciato ad investire sempre meno su alcuni servizi sociali ed educativi: si preferisce cioè affrontare le sfide e le questioni che in maniera ricorrente chiedono risposta con provvedimenti dal carattere emergenziale e con le terapie d’urto, piuttosto che ricorrere alla progettazione e alla programmazione di interventi più strutturati.
Eppure si ritiene che la crisi educativa relativa ai recenti episodi di violenza giovanile vada affrontata implementando i servizi e gli spazi per i giovani, promuovendo le occasioni di socialità, condivisione e inclusione, sostenendo tutte le agenzie educative, facilitando per i cittadini e per le famiglie che partono da situazioni di svantaggio il godimento dei diritti fondamentali, con l’intento di contenere le condizioni di fragilità e di marginalità.
In ultima analisi, davanti al fallimento delle misure preventive, occorrerebbe piuttosto riparare lo strappo creatosi tra l’individuo e la società tramite esperienze formative e rieducative che possano aumentare la consapevolezza di appartenere ad una comunità più vasta e quella dei propri diritti e doveri. Evitare quanto più possibile l’isolamento, l’interdizione e la marginalizzazione, obiettivo che diventa importante soprattutto nel caso di ragazzi, ovvero individui in formazione. Come insegna la teoria dell’etichettamento, infatti, l’esperienza deviante e delinquenziale può trasformarsi in un attributo stabile che l’individuo faticherà a togliersi di dosso, diventando anzi per lui il primo elemento disponibile per la costruzione della propria identità, con l’esito ultimo, non voluto, di aprire la strada a lunghe carriere delinquenziali.
Gino Stasi
Educatore