Ancora una volta la nostra città risale agli onori della cronaca nazionale grazie ad un servizio del TGI sulle mafie andato in onda domenica sera. Nel servizio si cristallizza ancora una volta l’immagine della nostra città come capitale della Sacra Corona Unita, con una modalità di rappresentazione giornalistica esattamente sovrapponibile a quella proposta da Sandro Ruotolo in Samarcanda circa 30 anni fa. Come se il tempo si fosse fermato. Ancora riecheggia l’anatema che il procuratore Cataldo Motta lanciò circa sei anni fa, come una come una condanna imperitura: «Mesagne è una schifezza», città mafiosa con ampia zona grigia, fatta di indifferenza, di omertà se non di connivenza con il sistema criminale.
Questo quadro sconsolante è riemerso nella trasmissione televisiva di domenica nella quale Mesagne è stata annoverata tra le realtà nazionali più compromesse del Paese. Mi sembra una rappresentazione datata che si fonda su uno stereotipo che funziona molto sul piano mediatico ma che nega la Storia e confonde la verità. Una onesta ricostruzione storica dell’oggi è in grado di ricollocare l’esperienza criminale della SCU nel panorama criminologico italiano in modo del tutto anomalo ed irrituale rispetto alle Mafie italiche; quindi la semplificazione e l’equiparazione giornalistica secondo cui Mesagne è come Gomorra risulta del tutto forviante.
La verità giudiziaria dice altro, la ricostruzione storica dice altro: dice ad esempio che sia stata proprio la mancanza di una “cultura mafiosa”, di un humus sociale accondiscendente, assieme alla impermeabilità delle istituzioni pubbliche e del sistema produttivo locale il vero tallone d’Achille della Sacra Corona Unita. Questi elementi sani della città hanno contribuito fortemente al declino della SCU così come è stato per tutte le congregazioni mafiose che hanno attraversato il Tacco dello stivale dalla seconda metà degli Anni ‘80.
Si può oggi dire con buona approssimazione che la SCU sia stata una mala pianta senza radici, piantata sulla sabbia e che non visto il terreno non poteva che disseccare, come è di fatto successo. Mesagne ed i mesagnesi sono le vittime e non i carnefici ed in questo macabro gioco delle parti, in cui la conseguenza si confonde con la causa. Ancora una volta siamo chiamati a difenderci e a ribadire che oggi questa città è altro: per alcune esperienze Mesagne è roccaforte della «antimafia sociale». Basti considerare le esperienze d’avanguardia nella gestione dei beni confiscati, nell’educazione ai Percorsi di legalità, nella costruzione di una struttura sociale solida e impermeabile tirata su nel tempo grazie ad opere meritorie come quelle di Libera Terra, della locale associazione Antiracket e antiusura, di reti come Avviso Pubblico ed al determinate apporto delle Istituzioni Pubbliche, delle Forze dell’Ordine e di un solido sistema scolastico e associativo.
Certo ci sono ancora forti elementi di criticità: si colgono distintamente i segni di una forte inquietudine sociale, soprattutto in ragione della dilagante disoccupazione giovanile dalla quale disperazione la criminalità attinge; cosi come verosimilmente esiste una residua, minima, capacità operativa che muove soprattutto dalle carceri, grazie anche al raccordo operato dalle «donne di mafia». Tutti elementi esistenti che non si possono negare cosi come le evidenze di una recrudescenza microcriminale che desta preoccupazione.
Ma rimenarla sul passato come se ancora Cristo sia fermo ad Eboli è una offesa alla verità oltre che alla dignità di un popolo.
Pompeo Molfetta – (Sindaco di Mesagne)