Home Primo Piano TALÌA RISCRIVE BOCCACCIO: UN DECAMERON SPIETATO, CARNALE, VITALE

TALÌA RISCRIVE BOCCACCIO: UN DECAMERON SPIETATO, CARNALE, VITALE

da Redazione
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Il Decameron messo in scena dalla Scuola d’Arte Drammatica della Puglia “Talìa”, per la regia di Maurizio Ciccolella, al Teatro Comunale di Mesagne, non è una riduzione scolastica, è un assalto. Uno spettacolo che sbriciola il confine tra letteratura e teatro, tra Medioevo e presente, tra allievi e professionisti. Non ci sono indulgenze, non c’è nostalgia. C’è carne viva. C’è l’intelligenza teatrale di chi ha scelto di non addomesticare Boccaccio ma di attraversarlo col corpo, con la voce, col ritmo serrato di chi non ha tempo da perdere.

Dieci episodi: alcuni celebri, altri meno, tutti riportati a una tensione che non ha bisogno di urlare per imporsi. Il sipario si apre – o meglio, la platea si popola – con l’eco di una pestilenza che, più che cornice, è stato d’animo. Un verso crudo, lanciato dal mezzo della sala – “Un male oscuro che non aveva rimedi” -, suona come una ferita ancora aperta. E da quella ferita partono i racconti. Racconti di corpi, di inganni, di brame, di travestimenti, di pulsioni. Racconti che non cercano morale ma verità. La scena è scarnificata: un armadio, una panca, una tavola, un orcio. Il teatro – finalmente – si fa gesto. Il palcoscenico, grazie a un gruppo di attori e attrici in formazione ma già consapevoli, è uno spazio elastico, nervoso, continuamente reinventato. Il ritmo è franto, frammentato, serrato. Non c’è compiacimento. Si alternano narrazione e azione, dialoghi secchi e aperture corali, canto, danza, immagini. Tutto si tiene. Tutto respira.

Maurizio Ciccolella dirige con una regia apparentemente invisibile ma saldamente presente: lascia spazio agli interpreti ma è chiarissimo nel disegno. Ogni quadro ha una sua partitura interna, un tempo specifico. Alcuni sfiorano la coreografia, altri si affidano al puro racconto. Tutti stanno in piedi da soli ma si tengono per mano in una costruzione d’insieme che ha il respiro della coralità e il passo del teatro necessario. C’è da ridere, molto. Ma non è una risata leggera. È una risata che arriva dopo una caduta – quella di Andreuccio nella celebre cisterna – o dopo una beffa azzardata – quella di Peronella con l’amante nell’orcio e il marito che raschia dentro, letteralmente. Ma c’è anche l’eros disarmante di Alibech e Rustico, affidato a due interpreti capaci di tenere la scena senza mai inciampare sulla volgarità, anzi restituendo tutta l’ambiguità poetica e scandalosa di un testo che oggi fa ancora arrossire. C’è la preghiera che si fa desiderio, la parola che si fa carne e un teatro che si fa rito.

Poi c’è Federico degli Alberighi e all’improvviso il tono si spezza. La voce narrante si fa lenta, quasi trasparente. Il falcone offerto per amore e sacrificato inconsapevolmente è un’immagine che taglia il pubblico come un bisturi. Nessuna retorica, nessun compiacimento lirico: solo una scena raccontata con pudore e con silenzio. Ed è proprio qui che lo spettacolo trova la sua profondità: nella capacità di alternare l’ironia più sfrontata alla tenerezza più lacerante, senza bisogno di effetti speciali, né di musiche enfatiche.

Il vero effetto speciale è la compagnia. Gli attori e le attrici – molti giovanissimi – abitano ruoli multipli con disinvoltura: narratori, personaggi, comparse, cori. Cambiano registro, cambiano postura, cambiano voce ma non cambiano mai temperatura. Il pubblico li segue con attenzione crescente, sorride, ride, ascolta, applaude. Si lascia portare. E si diverte, davvero. È un divertimento pieno, genuino, che scavalca le età e contagia tutti: dai più piccoli ai più grandi, dagli spettatori più esperti a chi è a teatro per la prima volta. Non è solo risata: è partecipazione, è coinvolgimento, è sentirsi dentro una storia che, nonostante i secoli, parla a ciascuno. E ci sono scene che restano impresse: le suore che si passano Masetto come una rivelazione divina; la badessa che indossa per errore i calzoni del prete e, smascherata, si rifugia nella teologia dell’istinto; l’ultima, straordinaria beffa di Spinelloccio chiuso nella cassa mentre il rivale si prende la rivincita sul suo corpo. È un teatro senza moralismo ma non senza etica. La morale, semmai, è del pubblico. Ognuno ne esce con un pezzo di sé messo in discussione.

In un’epoca in cui si parla tanto di “classici attualizzati”, questo Decameron è un esempio raro di attualità senza forzature. Non c’è il bisogno di dimostrare che Boccaccio è moderno. È il teatro, semmai, a farsi urgente, aderente, presente. Talìa non interpreta Boccaccio: lo respira, lo incarna, lo fa detonare. In tempi incerti, in cui la peste ha assunto nuovi nomi e nuovi volti, questo spettacolo ci ricorda perché esistono le storie: per restare vivi. Per riderci sopra. Per desiderare ancora. Per fare i conti con il caos. E soprattutto, per dirci che l’arte, quando è libera, non ha età. Uno spettacolo che non mette in scena il Decameron: lo mette in circolo. E ci lascia con la sensazione di aver assistito non a una lezione ma a una festa. Disperata, sfacciata, bellissima.

In scena: Valeria Galasso, Alessia Sturdà, Simone Quartulli, Stefano Sergio, Daniele Corsa, Antonio Passiatore, Marika Dantes, Claudia De Paola, Maria Pia D’Alessio, Zaira Zizzi, Giovanni Capodieci, Daisy Peluso, Simone Curto, Nicole Massaro, Paola Savarese, Anna Piccinno, Marco Chirivì, Antonella Saracino, CarmelaRita Facecchia, Fernando Bruno, Consuelo Pane, Mario Taveri, Marilù Palmieri, Vincenzo Sciurti, Michael Prete.

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