Da sempre nelle nostre campagne le donne hanno avuto un ruolo importante.
Nella nostra provincia, con circa 60 mila ettari di oliveto, negli anni ’50, partecipavano alla raccolta a mano delle olive circa 30mila donne di tutte le età.
Mamme, nonne e molte volte anche bambine di 10 – 12 anni.
Allora la raccolta delle olive durava da ottobre ad aprile. La paga giornaliera era di 200 lire alle madri e di 50 o 100 lire alle figlie.
Nel 1950 venne stipulato il primo contratto per le raccoglitrici di olive.
La paga giornaliera era fissata per 300 lire, che allora corrispondeva al prezzo di un chilo di olio. Questo contratto venne conquistato dopo tanti scioperi e manifestazioni che si svolsero in tutta la collina brindisina a partire da Ceglie ed Ostuni.
Nel mese di febbraio del 1950 era scaduto anche il contratto delle tabacchine.
Le tabacchine portarono nelle lotte le loro rivendicazioni chiedendo alle ditte che lavoravano il tabacco di superare ogni forma di cottimo.
Il cottimo obbligava le donne a consegnare ogni fine settimana un numero preciso di filze di tabacco, e se il numero non si raggiungeva, si era passibili di licenziamento.
Le tabacchine in tutte e tre le provincie del Salento erano una forza enorme con oltre 70 mila addetti, di cui circa 4000 in provincia di Brindisi. La referente delle lotte delle tabacchine nel brindisino in quegli anni era la giovane Cristina Conchiglia che poi divenne deputata del PCI.
La lotta delle raccoglitrici di olive e quello delle tabacchine creò una forte movimento di lotta in tutti i comuni e l’Unione agricoltori fu costretta a firmare il primo contratto di lavoro per le donne. Allora il presidente della Unione degli agricoltori era l’avvocato Carlo Scarascia Mugnozza, che poi venne eletto deputato della DC.
Dopo questa fase che si protrasse per tutti gli anni 50 e 60, vi furono i primi processi di modifica della raccolta delle olive (le reti, le scope) e dunque si ebbe una riduzione drastica del lavoro femminile in termini di giornate di ingaggio. Proprio in quegli anni in cui venne a mancare tanto lavoro nella zona della collina brindisina, iniziarono le migrazioni per andare a lavorare fuori provincia. Le zone irrigue e più moderne di agricoltura erano già il Metapontino e la zona occidentale del tarantino. Proprio in questi flussi migratori si insediò il fenomeno del caporalato. Fenomeno che arrivò alla ribalta nazionale dopo l’incidente che avvenne il 19 maggio 1980, con la morte in un incidente di tre ragazze braccianti. In quei flussi negli anni 80, con centinaia di pulmini (dei caporali) erano interessate almeno 7 – 8 mila donne (soprattutto da Ceglie, Cisternino, Villa castelli, San Michele), che si spostavano in estate anche verso il sud est barese alla lavorazione dell’incassettamento dell’uva. Un altro incidente, di caporalato, mortale in cui morirono tre braccianti di Oria avvenne ai primi di settembre del 1993.
Si avviava invece nel resto del territorio una nuova fase di produzioni agricole: il carciofo, il pesco e il pomodoro. In particolare la lavorazione del carciofino nel periodo primaverile, impegnò un vasto numero di donne.
Sorsero decine di locali di lavorazione del carciofino a Mesagne, San Vito, San Pietro, Tuturano e Torchiarolo, che impiegarono migliaia di donne (almeno 10 mila) per tre mesi (da marzo a giugno). Vi furono decine e decine di assemblee sindacali per illustrare alle donne alcune richieste da avanzare ai titolari delle ditte, sulle condizioni di lavoro più salubri (c’erano tanti vapori acetati nei locali per la lavorazione del prodotto), sugli orari e sul salario. Oltre al rispetto delle giornate di ingaggio. Allora il salario si aggirava intorno alle 10 mila lire a giornata. Questa fase interessò tutti gli anni 70.
Agli inizi degli anni 80 soprattutto a Mesagne sorsero invece una diecina di fabbriche per la trasformazione del pomodoro, perché si sviluppò a macchia d’olio questa coltivazione.
Sorsero queste industrie di trasformazione perché non si voleva più, come era avvenuto per molti anni, che il cosiddetto “oro rosso” venisse portato via nelle aziende di trasformazione del salernitano (Angri, Nocera, Pagani…). La lavorazione del pomodoro allungava il periodo di occupazione stagionale delle donne anche nei mesi estivi.
Per almeno un altro decennio la coltivazione del pomodoro continuò fino agli inizi degli anni ‘90.
Interessò un periodo intenso di lavorazione impegnando nel ciclo produttivo molti settori (piantine, concimi, preparazione dei pozzi, stipula di polizze contro la grandine), oltre la conduzione del terreno e la raccolta del pomodoro.
L’aumento della salinità dei pozzi artesiani, la saturazione dei terreni che per oltre un ventennio vennero utilizzate per la coltivazione del pomodoro, determinò tra l’altro la “scomparsa” di tale coltivazione nel nostro territorio.
Ho tratteggiato brevemente in questo trentennio l’evoluzione tra sacrifici, lotte e conquiste del lavoro femminile nelle nostre campagne passando dalle 300 lire del salario degli anni 50 alla lenta conquista di nuovi diritti salariali e previdenziali che hanno portato oggi il lavoro femminile al pieno riconoscimento dei contratti nazionali e alla conquista importante di una legge per debellare il caporalato (legge 199 del 2016).
Senza dimenticare che questo lungo protagonismo e movimento di donne ha posto al centro della società brindisina e meridionale il tema del riscatto culturale e della pari dignità della donna nel lavoro e nella società.
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